L’Ossessione per il Target
Oggi voglio condividere la mia esperienza rispetto alla proposta di introdurre le pratiche filosofiche in ambiti aziendali e alle ricadute negative della parcellizzazione della formazione umanistica da parte degli “esperti di settore”.
Quando spiego ad un imprenditore che la filosofia è uno stile di vita, mi trovo immediatamente ad affrontare la rigidità della falsa credenza.
Esattamente quella credenza che intende la vita come una esperienza privata, separata e altra rispetto a ciò che accade sul posto di lavoro.
Infatti, anche nel coaching, come pure nelle varie altre proposte formative dedicate alle aziende, si usa impropriamente fare un distinguo netto tra ambiti life e business.
Il che sarebbe un po’ come dire che il tempo impiegato a fare impresa, o a lavorare per una impresa, non sia propriamente vita.
Da questa prospettiva, ecco che il consulente, o formatore, diventa figura credibile solo quando si qualifica con specializzazioni e tecnicismi puntualmente legati al contesto.
Poco importa che in quel contesto operino e interagiscano soggetti e che l’esperto sia altamente qualificato nell’indagare, interpretare, organizzare e gestire le relazioni umane.
Relazioni, sia ben chiaro, non Risorse!
Inoltre, ci si aspetta che il professionista dimostri una grande padronanza di linguaggio business style, infarcito di acronimi, anglicismi e neologismi che, alla prova dei fatti, creano opacità laddove sarebbe opportuno portare chiarezza.
Uno dei messaggi più difficili da far passare nelle aziende, quando mi presento come Professionista e Consulente delle Pratiche Filosofiche, riguarda proprio questo fraintendimento, che vorrei portare a disambiguazione.
In una attività produttiva, così come in una organizzazione generica, ci sono due ambiti che necessitano di formazione continua:
- il primo riguarda l’insieme di mezzi, strumenti e processi e la loro ottimale funzionalità;
- il secondo riguarda le persone che operano all’interno o gravitano attorno al sistema.
Nel primo caso parliamo di formazione professionale veicolata da contenuti teorici e tecnico/scientifici che conducono ad un particolare livello di specializzazione operativa e organizzativa.
Nel secondo caso, invece, si tratta di formazione umanistica ed è esattamente quello per cui il professionista delle Pratiche Filosofiche, con il suo bagaglio di teorie e metodi raccolti ed esercitati in anni di studi ed esperienze, è stato preparato.
Tutto ciò a prescindere dallo scenario in cui i soggetti messi a progetto formativo si trovino ad operare, e ora provo a spiegarti perché.
Le Persone NON sono Scomponibili in Segmenti Spazio-Temporali
Eppure l’abitudine porta a considerarci esattamente in questo modo, come se fossimo dei mattoncini lego:
- qui e ora sei un/una dipendente, manager, imprenditore/imprenditrice ecc.;
- più tardi e altrove sei padre/madre figlio/figlia fratello/sorella ecc.;
- nel week-end magari ti trasformi in amico/amica, turista, o altro soggetto dedito ad attività sportive, di volontariato, amatoriali, ludiche ecc.
un po’ come Superman e Clark Kent (per gli amanti del politically correct propongo Catwoman e Selina Kyle) che, a seconda delle circostanze, ha potenzialità e personalità differenti.
Ma ciò che siamo abituati a pensare, dire, fare, non è necessariamente vero, e di questo pensiero fallace spesso ne siamo pure vittime (in)consapevoli.
Sappiamo che l’abitudine induce a quella forma di pigrizia che chiama in causa il pilota automatico, una delle tante funzionalità della nostra mente, che ci evita la fatica di mettere in discussione il sistema o la nostra funzione al suo interno.
Questo automatismo ci orienta nel piccolo spazio che corrisponde alla nostra comfort zone: funziona fin tanto che ci riesce agevole e non per questo significa che sia la nostra migliore chance.
Rimane il fatto che l’essere umano è un intero e fa tutt’uno con la propria storia a prescindere dalle false convinzioni che coltiva.
Circoscrivere ruoli, elencare comparti di attività e finalità che corrispondano a tante maschere e altrettanti cambi d’abito, si risolve in una messa tra parentesi del soggetto in favore delle sue interpretazioni.
L’attore, che può recitare benissimo ogni ruolo sulla scena, corre il rischio di ridursi a comparsa nell’agire quotidiano della sua stessa storia.
Vero è, comunque, che una sola persona può vestire i panni di tanti personaggi e altrettante maschere, a seconda delle circostanze.
La poliedricità è prerogativa umana e così pure la capacità di adattamento, importante è averne consapevolezza e riassumere le tante sfaccettature come un unicum, frutto della nostra esperienza ed educazione.
Quel bagaglio identitario che ci consente di continuare a dire IO riferendosi sempre allo stesso centro dinamico di unità e riflessione, e in capo al quale convergono emozioni, sentimenti, esperienze, competenze, ecc.
In pratica, essere consapevoli del fatto che è sempre la stessa storia quella che si sta scrivendo, la nostra storia, che attraversa molti luoghi, è impegnata in varie attività e resiste alle fasi del tempo.
Questa presa di coscienza la possiamo vivere tutti, più o meno onestamente, alla fine di ogni giornata.
Basta fare po’ di attenzione alla spia della riserva energetica che rinvia ad un solo conto economico e realizzare che le forze fisiche e psichiche, consumate nei differenti contesti, non le si ritrovano magicamente rigenerate nel cassetto dei pigiami o del cambio d’abito per l’uscita serale.
Allora:
- perché insistere nel voler scomporre la vita di una persona come un agglomerato accidentale di parti?
- perché ingannare o indurre all’autoinganno promuovendo la catalogazione di problematiche e competenze in scomparti differenti e suddivisi tra sfera lavorativa e sfera privata o altro?
- perché non ammettere che le grandi questioni sono parte di noi a prescindere dalle differenti attività che ci impegnano nello spazio e nel tempo?
Eludere queste domande e perseverare nei luoghi comuni sopra citati apre ad una iperbolica offerta di specializzazioni settoriali cui seguono: l’apparire di fantasiose tipologie di esperti consulenti, da un lato, e una grande confusione nella scelta di quella più efficace dall’altro.
Il punto è che ogni questione non è altro che il risultato di un esercizio di pensiero, per cui si da un soggetto pensante che:
- incontra una difficoltà di percorso;
- entra in crisi;
- isola un oggetto da problematizzare;
- mette l’oggetto al centro di una domanda;
- avanza delle ipotesi di superamento.
Si tratta di una relazione critica per risolvere la quale il potenziale successo è contenuto non tanto nella formulazione della risposta migliore quanto nella corretta verbalizzazione della domanda.
E in fatto di domande problematizzanti la Filosofia ha parecchio non solo da dire ma anche da dimostrare.
Tutti i Problemi Sono Riconducibili a Pensieri “Sgrammaticati”?
La pratica filosofica agisce sulla narrazione e interpretazione dei fatti e non tanto sui fatti stessi, che filosoficamente parlando (Nietzsche docet) , non esistono se non all’interno della dimensione linguistica che li racconta.
Il mondo allora è ciò che noi esprimiamo come testimonianza delle varie relazioni intraprese con persone e cose.
Un linguaggio povero, inadeguato, irrazionale o illogico non fa che aggiungere ostacoli al nostro cammino.
Ecco perché l’esercizio Filosofico è un buon allenamento per affrontare i problemi:
- perché si occupa di grammatiche del pensiero;
- perché solleva dubbi laddove si coltivano false certezze;
- perché pone domande problematizzanti, che mirano a sondare in profondità le questioni emergenti;
- perché allarga il campo visivo e affronta i temi da più punti di osservazione.
- ecc.
Con queste credenziali, e date le assunzioni di cui sopra, è facilmente intuibile che allenare la mente a produrre autonomamente delle strategie di chiarificazione è vantaggioso sia per il singolo che per le organizzazioni.
La filosofia si occupa di esistenza e l’esistenza è tale ovunque ci si trovi, e qualunque sia l’attività svolta.
Quale che sia il tema da affrontare, le dinamiche di un pensiero ben allenato intervengono con gli stessi strumenti logici e argomentativi a negoziare e dissolvere, con abilità ed efficienza, le varie questioni, individuando nuovi paradigmi e modi strategici innovativi in ogni ambito.
L’allenamento del pensiero, che discende dalle Pratiche Filosofiche, è il migliore alleato per affrontare autonomamente ogni sfida, con la giusta dose di curiosità piuttosto che con superficialità o rassegnazione.
In fin dei conti, poter introiettare un approccio univoco ed efficiente, per affrontare i problemi che si affacciano al nostro orizzonte, è un vantaggio di ordine metodologico e un conforto per lo spirito che trova il suo centro di orientamento e realizzazione nella ricerca indipendente di soluzioni.
La Nostra Storia è Una Sola
L’esistenza è unica così come unica dovrebbe essere la sua narrazione: una storia è fatta di molti capitoli che descrivono vari accadimenti i quali devono essere legati da un filo conduttore altrimenti non siamo in grado di comprenderla fino in fondo.
Separare le situazioni, e isolare il particolare, funziona solo con la supponenza di voler affrontare le questioni con un approccio scientifico, oggettivante, parcellizzante e tecnicistico.
Va da se che, se riduco il soggetto ad oggetto di osservazione il primo non è più tale perché perde la sua libertà di azione e la sua dignità di persona.
L’approccio filosofico è olistico, inclusivo e rispettoso della dignità della persona, perciò guarda sempre all’intero dell’esistenza.
Quando si dice “vita”, che in “filosofese” diventa appunto esistenza, si vuole significare tutto ciò che concerne l’umano e le sue relazioni: lavoro, scuola, famiglia, amicizie, sport, tempo libero.
Ecco perché lo sguardo filosofico sulle questioni è di tipo universale e questo va spiegato per non cadere in semplificazioni del tipo “ah già il filosofo, quello che vorrebbe parlare di tutto senza sapere nulla”.
Non si tratta di conoscere i contenuti ma l’architettura del discorso che li ospita:
Il pensiero è fluido, assume qualunque forma, ed il filosofo è un esperto del pensiero.
Con il suo bagaglio affronta ogni questione, la sua esperienza riguarda il linguaggio e il suo oggetto di indagine è l’esistenza stessa che con il linguaggio si racconta.
Questo approccio lo esime dall’essere un tecnico esperto dello spazio in cui si trova ad operare il suo ospite o del tema specifico che si richiede di affrontare.
Il filosofo è l’architetto che studia la tenuta della struttura portante; il completamento dell’opera e la scelta dei materiali, delle forme, dei colori, sono a carico del richiedente, che in questa operazione è sostenuto dal presidio della logica del discorso.
L’intervento del filosofo è sempre di tipo dialogico, la questione è sempre esistenziale e la soluzione si situa di prassi nell’analisi della meta-narrazione.
Cioè una narrazione che contempla, nel suo dire e nel suo fare, la consapevolezza e la padronanza della struttura narrativa stressa.
I casi particolari sono sicuramente degli spunti di interesse, come ice-breacker o come pretesti ascensionali verso l’universale.
Essi sono esplorati quali punti di partenza e possono costituire tasselli rivelatori di un’esperienza che rimane in capo a chi li ha vissuti.
Accusare quindi il filosofo di non sapere nulla in parte è una affermazione vera, anzi verissima.
Già Socrate diceva di se stesso “io non so nulla, non posso insegnare nulla, posso solo farti pensare” e, ai più, qui sembra che l’attività di pensiero sia una cosa banale e vuota, praticamente inutile.
Questo perché oltre a non avere una idea precisa di cosa significhi esattamente “pensare”, abbiamo anche difficoltà, persino delle resistenze più o meno consce, nell’esercitare il nostro pensiero:
Si dice:
- pensare è inutile;
- pensare è dispendioso;
- pensare si oppone al fare;
E qui però si vuol parlare di un fare automatico, deresponsabilizzato e acritico.
Un fare sbrigativo e asservito, persino preceduto da un vuoto di pensiero.
L’attuale società è orientata alla performance e all’efficienza, è fortemente motivata a produrre azioni preordinate e automatizzate, spinte verso un obiettivo di scopo, a breve termine, il cui raggiungimento sia facilmente verificabile e appagante.
In questo processo, il pensiero critico che pone dubbi e conseguentemente formula domande, che scarta di lato e trova soluzioni inedite, diviene un ostacolo insopportabile.
Ma Cosa significa pensare?
Una prima definizione generica: “esercitare l’attività del pensiero, ovvero, attività psichica attraverso la quale un soggetto acquista coscienza di se e del fatto di co-abitare in un mondo”.
Ciò implica che il pensante, pensando, si scopra unità partecipe di un tutto fatto di relazioni complesse.
Queste relazioni possono essere vissute sia passivamente e inconsciamente, sia con coscienza, ovvero pensando a ciò che si fa, come e perché lo si fa.
Andando più in profondità, produrre attività di pensiero significa anche:
- fare attenzione a ciò che i sensi captano (sensazioni: sento qualcosa);
- razionalizzare ciò che è avvertito per acquisirne consapevolezza (percezioni: so che sento qualcosa);
- tradurre l’esperienza in parole per comunicarla a me stesso o ad altri (concetti: unità di linguaggio);
- ricavare dalla composizione linguistica una storia sensata che mi veda protagonista (narrazione del sé).
Il prodotto del mio pensiero, quindi, diventa visibile nel linguaggio che è testimonianza della mia esistenza e racconta chi sono e come mi muovo.
Esso è inoltre manifestazione di intenzionalità, desiderio, bisogno, urgenza di riconoscimento, rivendicazione di spazio/tempo e molto altro ancora.
Il modo in cui mi racconto è importante perché può determinarmi o destabilizzarmi, orientarmi e definire il mio posto nel mondo oppure disorientare me e gli altri rispetto alla mia presenza/assenza.
Si tratta di una narrazione che tiene assieme la mia storia oppure la frammenta, con tutte le ricadute del caso.
Il mio dire dipende da come padroneggio il linguaggio e dalla mia capacità di:
- elaborare e rielaborare ciò che sento, in argomentazioni logiche;
- riflettere criticamente sui principi e sulle cause;
- scoprire modi alternativi di agire o risolvere i problemi;
- immaginare mondi differenti in cui esistere,
In una parola il mio dire, il mio essere e il mio agire dipendono dal mio pensare.
Quella del Pensiero è una Macro-categoria.
Un insieme che raccoglie in se una serie di azioni trasformative: ragionare, riflettere, ponderare, speculare, immaginare, concepire, inventare, creare, ideare, progettare, fantasticare, ecc..
Il pensiero è quindi attività molteplice e pratica, con caratteristiche causa-effettuali.
La conoscenza di queste peculiarità si manifesta nella distanza tra l’agire con successo, e in autonomia, e il cadere nel fallimento, salvo il dipendere da altri.
Agire senza una preventiva azione riflessiva può essere comunque conveniente e performante, ti libera da ogni responsabilità e ti consente un grosso risparmio di tempo:
un enorme vantaggio per una organizzazione, sociale o economica, che operi in un sistema asettico, dove tutte le variabili sono previste/prevedibili e controllate/controllabili.
Esiste una organizzazione simile nella vita reale?
Possiamo usare una idea regolativa di questo genere per ispirarci nel nostro fare impresa?
Forse il mondo virtuale è la risposta perfetta a questa domanda, l’utopia scientifica dove tutto succede secondo previsione algoritmica e dove tutto si muove in seguito ad una concatenazione di cause preordinate.
In un simile mondo il pensiero divergente, l’idea creativa, la libera iniziativa dell’essere che pensa autonomamente, costituiscono errori di sistema e vanno rimossi come dei bug.
Chissà se la deriva digitale e la conseguente colonizzazione invasiva, di ogni ambito relazionale, hanno come obiettivo proprio la messa tra parentesi dell’esercizio autonomo del pensiero, in vista di una soluzione molto più smart, per cui ogni questione è rinviata ad un risolutore iper-specializzato, magari virtuale.
Un risolutore per ogni differente Target previsto dalla scomposizione esistenziale in Business style.
Se così fosse, quale modo migliore per raggiungere lo scopo di preservare e magari rinforzare la tendenza alla parcellizzazione dei soggetti declinandoli per ambiti e ruoli?
Ecco che il formatore, per stare nel mercato, dovrebbe essere costretto a scegliere il proprio target e dichiararsi, mentendo, un esperto di questa o quella particolare figura professionale, di questo o quell’ambito produttivo, di questo o quel particolare settore commerciale.
Io ho scelto, coerentemente con la mia formazione e sicuramente controtendenza, di occuparmi di persone, non come target, bersagli da colpire, ma come mondi da accogliere, ascoltare, raccontare.